Corte di Cassazione: l’immigrazione clandestina è ancora reato!
L’immigrazione clandestina è ancora reato. Parola di Corte di Cassazione che con una sentenza depositata il 29 ottobre ha decretato che l’ingresso irregolare nel territorio italiano resta reato penale e non semplice “violazione amministrativa”. In sostanza, i giudici hanno dovuto prendere atto di un vuoto normativo perché l’abrogazione di questo reato votata in Parlamento lo scorso 2 aprilecon Matteo Renzi da poco insediato a Palazzo Chigi, non ha poi avuto seguito.
Legge Maroni - Il voto di Montecitorio, infatti, rappresenta una sorta di “delega” con cui il Parlamento autorizza il governo a emanare i cosiddetti decreti attuativi che rendono poi applicabili le nuove norme. Decreti che però non sono mai stati emanati. La Cassazione ha infatti precisato che “questa delega non è ancora stata esercitata” per cui restano in vigore le norme precedenti, ovvero la Legge Maroni che prevede il reato di clandestinità. Di più, aggiungono gli ermellini: “la direttiva europea non vieta che il diritto di uno Stato membro qualifichi il soggiorno irregolare come reato o lo punisca con una sanzione penale”.
Fonte: Libero Quotidiano
venerdì 31 ottobre 2014
L'EDITORIALE DIMENTICATO DI PIERO OSTELLINO, EX DIRETTORE DEL CORRIERE DELLA SERA
Piero Ostellino (ex direttore del Corriere della Sera) scrive una critica puntuale, spietata e soprattutto liberale del renzismo, ma il il giornale di cui è stato direttore non la riporta neppure in prima pagina. Eccola:
di Piero Ostellino (Corriere della Sera) - Ciò che Matteo Renzi sta facendo nel Partito democratico – l’eliminazione progressiva della vecchia guardia, che pur merita di andare in pensione — rivelando che la tanto sbandierata rottamazione è stata solo la giustificazione demagogica di una operazione personale di potere per liberarsi dei concorrenti e conquistarne la segreteria — e nel Paese, l’irrisione del sindacato sceso in piazza contro il governo delle chiacchiere — irrisione che, con l’aria che tira, è come sparare sulla Croce rossa — non sono un modo di modernizzare la cultura politica della sinistra, né del sindacato. Ma il contrario.
Il ragazzotto fiorentino — che abbiamo a capo del governo senza averlo votato e che fa il verso al peggior Machiavelli della vulgata popolare — è ambizioso e cinico a sufficienza da distruggere irresponsabilmente lo stesso partito del quale è segretario e le poche tutele di chi lavora, pur di accrescere il proprio potere personale sia nel Pd, sia nel Paese. È anche abbastanza furbo per vendere la distruzione del partito di cui è segretario come un effetto collaterale della riforma politica e istituzionale che promette. I media comprano, a scatola chiusa, per una cosa seria gli effetti collaterali della sua ambizione.
Non c’è più nessuno che pare essere in grado di chiamare le cose col loro nome. Il rischio che corrono gli italiani è di finire nel tunnel di una ridicola autocrazia mascherata da riformismo parolaio; che, attraverso la leva fiscale — brandita anche da certi burocrati di Bruxelles — faccia perdere loro le libertà individuali, dopo aver distrutto, con la fine della sinistra e del sindacato, quelle collettive. Lo si lasci dire, allora, a chi scrive da sempre, senza mezzi termini, che la cultura politica di sinistra è stata, e ancora è, una iattura per il Paese.
La distruzione del Pd, e l’assunzione di un potere personale sempre maggiore da parte del suo segretario e capo del governo non vanno nella direzione della modernizzazione della cultura politica della sinistra. Quella che Renzi sta compiendo è l’operazione regressiva che tutti gli autocrati hanno compiuto nei confronti del Partito, o del movimento, che li aveva portati ai vertici del potere politico. La rivoluzione sovietica si era rapidamente risolta nella dittatura del Partito comunista e del suo Comitato centrale sul proletariato; successivamente, la deriva totalitaria aveva dato vita alla dittatura di Stalin sul Comitato centrale del Pcus, sullo stesso partito e sull’intera società.
La stessa operazione avevano compiuto Hitler nel movimento nazionalsocialista e Mussolini, nel fascismo, impadronendosene. Non sto dicendo che Renzi è come Stalin, Hitler e Mussolini, ci mancherebbe; sto solo segnalando che le stigmate dell’autocrate le ha tutte, e non le nasconde; basta ascoltarlo o guardarlo in Tv per constatarlo; lui esibisce la propria ambizione e ricorre a certe maniere spicce, nella presunzione che, in fondo, piacciano e gli procurino consenso.
In un Paese meno cialtrone, i media reagirebbero denunciando inganno e pericolo e l’opinione pubblica ne prenderebbe atto. Da noi, i media fingono di non vedere o, addirittura, plaudono, con la parte meno matura dell’opinione pubblica, all’«Uomo nuovo che cambierà l’Italia» come, nel ’22, avevano inneggiato all’originale, in nome dell’Ordine, abdicando alla funzione che, in una democrazia, dovrebbero esercitare a difesa delle libertà individuali e collettive.
Personalmente, non nutrivo alcuna simpatia, né ho oggi alcuna nostalgia, per la signora Bindi né per Massimo D’Alema. Ma ciò che inquieta è che in gioco non sono loro, ma una parte della nostra storia, della nostra tradizione politica, con i suoi limiti e le sue carenze e, con essa, il futuro del Paese. In gioco non è solo il Pd, che avrà i suoi difetti, ma che rappresenta pur sempre alcuni milioni di cittadini. Di una sinistra decente e sanamente riformista c’è bisogno; non fosse altro per la funzione critica che essa potrebbe esercitare rispetto a certe degenerazioni del capitalismo e del mercato nazionali. Ciò di cui non c’è davvero bisogno è di un nuovo duce…
Fonte: L'Intrapendente
di Piero Ostellino (Corriere della Sera) - Ciò che Matteo Renzi sta facendo nel Partito democratico – l’eliminazione progressiva della vecchia guardia, che pur merita di andare in pensione — rivelando che la tanto sbandierata rottamazione è stata solo la giustificazione demagogica di una operazione personale di potere per liberarsi dei concorrenti e conquistarne la segreteria — e nel Paese, l’irrisione del sindacato sceso in piazza contro il governo delle chiacchiere — irrisione che, con l’aria che tira, è come sparare sulla Croce rossa — non sono un modo di modernizzare la cultura politica della sinistra, né del sindacato. Ma il contrario.
Il ragazzotto fiorentino — che abbiamo a capo del governo senza averlo votato e che fa il verso al peggior Machiavelli della vulgata popolare — è ambizioso e cinico a sufficienza da distruggere irresponsabilmente lo stesso partito del quale è segretario e le poche tutele di chi lavora, pur di accrescere il proprio potere personale sia nel Pd, sia nel Paese. È anche abbastanza furbo per vendere la distruzione del partito di cui è segretario come un effetto collaterale della riforma politica e istituzionale che promette. I media comprano, a scatola chiusa, per una cosa seria gli effetti collaterali della sua ambizione.
Non c’è più nessuno che pare essere in grado di chiamare le cose col loro nome. Il rischio che corrono gli italiani è di finire nel tunnel di una ridicola autocrazia mascherata da riformismo parolaio; che, attraverso la leva fiscale — brandita anche da certi burocrati di Bruxelles — faccia perdere loro le libertà individuali, dopo aver distrutto, con la fine della sinistra e del sindacato, quelle collettive. Lo si lasci dire, allora, a chi scrive da sempre, senza mezzi termini, che la cultura politica di sinistra è stata, e ancora è, una iattura per il Paese.
La distruzione del Pd, e l’assunzione di un potere personale sempre maggiore da parte del suo segretario e capo del governo non vanno nella direzione della modernizzazione della cultura politica della sinistra. Quella che Renzi sta compiendo è l’operazione regressiva che tutti gli autocrati hanno compiuto nei confronti del Partito, o del movimento, che li aveva portati ai vertici del potere politico. La rivoluzione sovietica si era rapidamente risolta nella dittatura del Partito comunista e del suo Comitato centrale sul proletariato; successivamente, la deriva totalitaria aveva dato vita alla dittatura di Stalin sul Comitato centrale del Pcus, sullo stesso partito e sull’intera società.
La stessa operazione avevano compiuto Hitler nel movimento nazionalsocialista e Mussolini, nel fascismo, impadronendosene. Non sto dicendo che Renzi è come Stalin, Hitler e Mussolini, ci mancherebbe; sto solo segnalando che le stigmate dell’autocrate le ha tutte, e non le nasconde; basta ascoltarlo o guardarlo in Tv per constatarlo; lui esibisce la propria ambizione e ricorre a certe maniere spicce, nella presunzione che, in fondo, piacciano e gli procurino consenso.
In un Paese meno cialtrone, i media reagirebbero denunciando inganno e pericolo e l’opinione pubblica ne prenderebbe atto. Da noi, i media fingono di non vedere o, addirittura, plaudono, con la parte meno matura dell’opinione pubblica, all’«Uomo nuovo che cambierà l’Italia» come, nel ’22, avevano inneggiato all’originale, in nome dell’Ordine, abdicando alla funzione che, in una democrazia, dovrebbero esercitare a difesa delle libertà individuali e collettive.
Personalmente, non nutrivo alcuna simpatia, né ho oggi alcuna nostalgia, per la signora Bindi né per Massimo D’Alema. Ma ciò che inquieta è che in gioco non sono loro, ma una parte della nostra storia, della nostra tradizione politica, con i suoi limiti e le sue carenze e, con essa, il futuro del Paese. In gioco non è solo il Pd, che avrà i suoi difetti, ma che rappresenta pur sempre alcuni milioni di cittadini. Di una sinistra decente e sanamente riformista c’è bisogno; non fosse altro per la funzione critica che essa potrebbe esercitare rispetto a certe degenerazioni del capitalismo e del mercato nazionali. Ciò di cui non c’è davvero bisogno è di un nuovo duce…
Fonte: L'Intrapendente
REGGIO EMILIA: PICCHIATA DALLE COMPAGNE PERCHE' IMPURA “HAI LA MAMMA ITALIANA, NON SEI UNA VERA MUSULMANA”
“Impura”, e le amiche la pestano. Ora il bullismo islamico fa paura!
Agguato di tre adolescenti maghrebine a una compagna. La colpa? “Ha la madre italiana e veste all’occidentale”
A loro, musulmane «doc» (sempre col velo sulla testa), quella ragazza – musulmana «impura» (che al velo preferiva i cappelli stile grunge ) – proprio non piaceva.
Un’antipatia diventata nel tempo avversione. E, infine, aggressione. Insulti, calci e pugni. Come nel più classico modello di bullismo «occidentale». Maschi o femmine non fa differenza: quando si tratta di perseguitare i più deboli o gli indifesi, la viltà non fa differenza di sesso. Ma da oggi non fa distinzione neanche in tema di fede religiosa; così il bullismo vigliacco «apre» anche all’«islamismo».
Una brutta storia dai contorni ancora rarefatti che i media hanno subito marchiato col titolo più ad effetto: «Reggio Emilia, bullismo al femminile: lei non era musulmana pura».
La cronaca, presa pari pari dal verbale dei carabinieri, recita quanto segue: «Una studentessa 19enne di Reggio Emilia è stata per giorni vittima di bullismo da parte di tre ragazze, figlie di cittadini nordafricani residenti nel comprensorio montano reggiano».
La sua «colpa»? «Non essere una pura musulmana, per via della madre italiana e del suo abbigliamento troppo all’occidentale». Parole – queste legate all’abbigliamento e alle abitudine «troppo occidentali» – che sono spesso riecheggiate in bocca a uomini adulti (padri e fratelli) di fede musulmana nel contesto di delitti familiari; ora quelle stesse parole sembrano essere diventate «patrimonio» anche di giovani musulmane come quelle entrate in azione a Reggio Emilia.
Ma il motivo di quanto accaduto è solo da leggersi nell’ambito di una distorta concezione religiosa e culturale, o c’è qualcos’altro (magari una banale questione di cuore)? Al momento i carabinieri non fanno cenno a invidie sentimentali o a fidanzati contesi, avvalorando piuttosto la pista – diciamo così – dell’«integralismo religioso»: «È per questo motivo che le tre ragazze, una minorenne e le altre due di 18 e 19 anni, hanno offesa e minacciata la loro vittima per giorni fino a quando, all’uscita da scuola, l’hanno aggredita tirandole i capelli e prendendola a calci alla fermata del pullman».
A differenza di casi analoghi, il pestaggio è stato subito interrotto da qualcuno che ha assistito alla scena e, per fortuna, non ha deciso di immortalarla con un telefonino, ma ha pensato bene di interromperla dividendo i contendenti.
Torniamo al verbale della Benemerita: «È stato solo grazie all’intervento di un passante che il pestaggio ha avuto fine. La giovane è poi ricorsa alle cure mediche, con una prognosi di 7 giorni per i traumi e le contusioni riportate. La ragazza ha quindi sporto denuncia presso la stazione dell’Arma di Castelnovo Monti per lesioni personali, minacce e ingiurie».
A completare il quadro sono le annotazioni dei cronisti di nera della zona: «Nonostante la 19enne non conoscesse direttamente le tre ragazze, se non di vista e con i vezzeggiativi che usavano nei rispettivi profili Facebook , dove si sono anche vantate dell’accaduto, i carabinieri sono riusciti a identificarle. Ora saranno denunciate alla Procura reggiana e a quelle dei minori di Bologna per i reati di lesioni personali, ingiurie e minacce».
Solo pochi giorni fa, sempre a Reggio Emilia, un gruppo di baby bulli è stato fermato per aver schiaffeggiato un coetaneo, istigandolo a rubare in un centro commerciale. Disavventura simile a Piacenza per un 12enne che era costretto a rubare somme di denaro ai genitori per consegnarle ai suoi aguzzini: adolescenti poco più grandi di lui. I responsabili di entrambi gli episodi sono stati individuati e ora sono tutti in comunità di recupero. Servirà a qualcosa?
Fonte: Il Giornale
Agguato di tre adolescenti maghrebine a una compagna. La colpa? “Ha la madre italiana e veste all’occidentale”
A loro, musulmane «doc» (sempre col velo sulla testa), quella ragazza – musulmana «impura» (che al velo preferiva i cappelli stile grunge ) – proprio non piaceva.
Un’antipatia diventata nel tempo avversione. E, infine, aggressione. Insulti, calci e pugni. Come nel più classico modello di bullismo «occidentale». Maschi o femmine non fa differenza: quando si tratta di perseguitare i più deboli o gli indifesi, la viltà non fa differenza di sesso. Ma da oggi non fa distinzione neanche in tema di fede religiosa; così il bullismo vigliacco «apre» anche all’«islamismo».
Una brutta storia dai contorni ancora rarefatti che i media hanno subito marchiato col titolo più ad effetto: «Reggio Emilia, bullismo al femminile: lei non era musulmana pura».
La cronaca, presa pari pari dal verbale dei carabinieri, recita quanto segue: «Una studentessa 19enne di Reggio Emilia è stata per giorni vittima di bullismo da parte di tre ragazze, figlie di cittadini nordafricani residenti nel comprensorio montano reggiano».
La sua «colpa»? «Non essere una pura musulmana, per via della madre italiana e del suo abbigliamento troppo all’occidentale». Parole – queste legate all’abbigliamento e alle abitudine «troppo occidentali» – che sono spesso riecheggiate in bocca a uomini adulti (padri e fratelli) di fede musulmana nel contesto di delitti familiari; ora quelle stesse parole sembrano essere diventate «patrimonio» anche di giovani musulmane come quelle entrate in azione a Reggio Emilia.
Ma il motivo di quanto accaduto è solo da leggersi nell’ambito di una distorta concezione religiosa e culturale, o c’è qualcos’altro (magari una banale questione di cuore)? Al momento i carabinieri non fanno cenno a invidie sentimentali o a fidanzati contesi, avvalorando piuttosto la pista – diciamo così – dell’«integralismo religioso»: «È per questo motivo che le tre ragazze, una minorenne e le altre due di 18 e 19 anni, hanno offesa e minacciata la loro vittima per giorni fino a quando, all’uscita da scuola, l’hanno aggredita tirandole i capelli e prendendola a calci alla fermata del pullman».
A differenza di casi analoghi, il pestaggio è stato subito interrotto da qualcuno che ha assistito alla scena e, per fortuna, non ha deciso di immortalarla con un telefonino, ma ha pensato bene di interromperla dividendo i contendenti.
Torniamo al verbale della Benemerita: «È stato solo grazie all’intervento di un passante che il pestaggio ha avuto fine. La giovane è poi ricorsa alle cure mediche, con una prognosi di 7 giorni per i traumi e le contusioni riportate. La ragazza ha quindi sporto denuncia presso la stazione dell’Arma di Castelnovo Monti per lesioni personali, minacce e ingiurie».
A completare il quadro sono le annotazioni dei cronisti di nera della zona: «Nonostante la 19enne non conoscesse direttamente le tre ragazze, se non di vista e con i vezzeggiativi che usavano nei rispettivi profili Facebook , dove si sono anche vantate dell’accaduto, i carabinieri sono riusciti a identificarle. Ora saranno denunciate alla Procura reggiana e a quelle dei minori di Bologna per i reati di lesioni personali, ingiurie e minacce».
Solo pochi giorni fa, sempre a Reggio Emilia, un gruppo di baby bulli è stato fermato per aver schiaffeggiato un coetaneo, istigandolo a rubare in un centro commerciale. Disavventura simile a Piacenza per un 12enne che era costretto a rubare somme di denaro ai genitori per consegnarle ai suoi aguzzini: adolescenti poco più grandi di lui. I responsabili di entrambi gli episodi sono stati individuati e ora sono tutti in comunità di recupero. Servirà a qualcosa?
Fonte: Il Giornale
ECCO LA NUOVA TASSA SULLE CALDAIE IN VIGORE DAL 15 OTTOBRE!
Caldaie, nuovo libretto di impianto
Ma l’efficienza energetica è un salasso
In vigore dal 15 ottobre la normativa sui nuovi libretti e sui nuovi modelli per il controllo di efficienza energetica per condizionatori e caldaie. Ma il rispetto per l’ambiente e per l’igiene faranno sborsare 200 euro a famiglia
Una spazzola e una prova di accensione della durata di ventina di minuti al costo medio di 80 euro. Cifra che superava i 100 euro se si sommavano anche il controllo dei fumi e il bollino. Questo l’esborso che fino a due settimane fa si dovevano sobbarcare tutti i proprietari di casa alle prese con il controllo obbligatorio della caldaia. Ma dal 15 ottobre, nel nome della sicurezza e del rispetto per l’ambiente, tutto è cambiato: padroni e inquilini dovranno dotarsi di un nuovo libretto (dedicato anche a sistemi di climatizzazione, impianti solari, pompe di calore o di teleriscaldamento) in cui verrà redatto il Rapporto di efficienza energetica, vale a dire la certificazione del buon funzionamento dell’impianto.
Il libretto (composto da 37 pagine e disponibile sul sito del ministero dello Sviluppo Economico) non andrà, tuttavia, a sostituirsi al vecchio, ma lo affiancherà. In pratica, in ogni casa ce ne dovranno sempre essere due. Sul primo, infatti, si verbalizzerà il rapporto di efficienza energetica relativo alle prestazioni degli impianti, mentre sull’altro si riporteranno i controlli periodici susicurezza, salubrità e igiene degli apparecchi, ora diventati obbligatori.
Una mini-rivoluzione che, tuttavia, si è già trasformata nell’ennesimo salasso. I numeri sono chiari: con l’aggiunta delle verifiche del rendimento di efficienza energetica e della sanificazione previste dalla nuova carta d’identità, una famiglia con una caldaia collegata a 4 o 5 termosifoni e un impianto diclimatizzazione con 2 o 3 split deve spendere in media 200 euro. E per chi non rispetta la normativa, le multe previste sono salatissime: si va da 500 a 3mila euro. Cifra che lievita fino a6mila euro per l’installatore sprovveduto o poco serio.
Le nuove regole, imposte dal ministero dello Sviluppo con ildecreto del 10 febbraio 2014 (che prevedeva l’entrata in vigore già a giugno, scadenza poi slittata al 15 ottobre per consentire a tutti di aggiornarsi ) non sono però altrettanto chiare quando si tratta delle modalità di attuazione. Non è, infatti, ancora precisato chiaro quando debbano essere fatti i controlli di efficienza delle caldaie, dal momento che saranno le Regioni a fissarne la periodicità (in genere due anni per gli impianti termici a combustibile liquido o solido superiori ai 10 kW e inferiori a 100 kW di potenza o quattro anni per gli impianti a gas metano o Gpl superiori ai 10 kW e inferiori a 100 kW di potenza). La periodicità dei test di sicurezza e salubrità, invece, la stabilisce il tecnico che fa la manutenzione, ma in linea di massima è annuale.
Così per le famiglie italiane non dovrà partire una corsa disperata per mettersi in regola. Ma la confusione è già tanta al solo pensiero del raddoppio dei controlli obbligatori e dei due libretti. La novità non piace affatto alle associazioni dei consumatori. Konsumer Italia contesta la discrezionalità sulla scelta della frequenza dei controlli, che potrebbe creare disparità tra i cittadini delle varie Regioni e permettere ai tecnici di moltiplicare a dismisura i test, approfittando della situazione.
Il motivo della criticità sollevata è chiara: in base alla nuova normativa, per i nuovi impianti la prima annotazione del libretto compete all’installatore. Per caldaie e condizionatori già montati, sarà invece il responsabile dell’impianto (il proprietari o l’inquilino nel caso di un impianto autonomo e l’amministratore per i centralizzati) accertarsi che venga predisposto il libretto. Con un distinguo: chi è in affitto dovrà farsi carico delle sole spese ordinarie. Quelle straordinarie (come, ad esempio, la sostituzione di tecnologie o interventi significativi sull’impianto che verranno indicati dal manutentore) sono a carico del proprietario.
Al termine della diagnosi, il manutentore (per accertarsi che sia in regola con i requisiti di legge per operare si può consultare laCamera di Commercio) dovrà poi trasmettere agli enti preposti il cosiddetto rapporto di controllo. Le verifiche non verranno più effettuate a campione, ma si partirà da coloro che non hanno svolto gli interventi e del cui impianto non è arrivata alcuna notifica al Catasto.
Fonte: Il fatto quotidiano
giovedì 30 ottobre 2014
La Casta con un trucchetto si riduce il 18,7% delle tasse in busta paga
CON UN TRUCCHETTO, GRAZIE A
UN LAVORO RIMASTO SEMPRE SOTTO TRACCIA, È PASSATA LA RIDUZIONE AL 18,7%
DELLE TASSE SULLA BUSTA PAGA DI DEPUTATI E SENATORI
I partiti politici italiani se le sono date di santa ragione per favorire a colpi di leggi i loro rispettivi bacini elettorali. Ma su un fronte hanno lavorato tutti insieme appassionatamente.
L’obiettivo era quello di garantire un trattamento fiscale di straordinario privilegio ai loro rappresentanti in parlamento (ma le stesse regole sono previste anche per gli onorevoli regionali). Ed è stato perfettamente centrato, con un lavorìo rimasto sempre sotto traccia.
Pochi lo sanno: l’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici economici e pensionistici degli onorevoli.
Ma quelli fiscali sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera in rappresentanza del popolo italiano è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento. Ecco come funziona, documenti ufficiali alla mano (ricavati dal sito istituzionale della Camera).
Prendiamo un parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare mai una seduta di Montecitorio. La voce più pesante della sua busta paga è l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno.
Dall’importo vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è esentasse, come vedremo (e come d’altronde è scritto nero su bianco nella relazione al 31 dicembre 2011 su Attività e risultati della Commissione Giovannini sul livellamento retributivo Italia-Europa).
L’onorevole subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918 euro (11.019 euro l’anno). Dall’indennità parlamentare viene infine detratta una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria integrativa.
Il trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno positivo, tutti benefit esentasse. La prima è la diaria, una sorta di rimborso per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037 l’anno) e viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza. La seconda è il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese (44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con pezze d’appoggio (per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo forfettario.
La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo (ai fini della nostra simulazione abbiamo ipotizzato che ciò gli consenta di risparmiare 5 mila euro tondi l’anno) e un rimborso forfettario delle spese di trasporto (ma non viaggia già gratis?) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno). La quarta voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro l’anno) per le bollette telefoniche.
Il pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a 189.431 euro. Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro. Che corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per cento.
Qualunque altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del 39,4 per cento).
L’onorevole paga dunque solo il 47 per cento di quello che toccherebbe a un cittadino comune (e per semplicità non si è tenuto conto degli ulteriori benefici di cui gode sulle addizionali regionale e comunale) e risparmia ogni anno qualcosa come 39 mila euro d’imposta (vedere la tabella nella pagina a fianco). A consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa, da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) e ai giudici costituzionali, «purché l’erogazione di tali somme e i relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi».
Il rispetto dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione. Ma il parlamento ha deciso diversamente. Costringendo altri uffici pubblici a fare i salti mortali per non doverne censurare le scelte. Basti pensare che il Gruppo di lavoro sull’erosione fiscale, costituito a suo tempo da Tremonti per tagliare la spesa pubblica e presieduto da Vieri Ceriani, non avendo altri criteri di rilievo costituzionale per giustificare le ragioni di tali benefici fiscali ha dovuto classificarli tra le misure a rilevanza sociale, cioè alla stregua di quelle a favore delle Onlus e del terzo settore e di quelle che aiutano l’occupazione. Poi dice l’antipolitica.
Ma non è finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento a Lorsignori doveva sembrare ancora poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir (Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917).
Ecco come hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare di 784 euro.
Trattandosi di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dello chèque. L’articolo 17, comma 1 del D.P.R. 917/86 prevede, come per il Tfr dei lavoratori, una tassazione separata dell’assegno di fine mandato, per evitare che si sommi al reddito dell’anno in cui viene incassato, facendo così scattare un’aliquota fiscale più alta.
Ma c’è un’altra disposizione (contenuta nell’articolo 19, comma 2 bis del Tuir) che riguarda il metodo di tassazione separata dell’indennità spettante ai dipendenti pubblici (buonuscita per gli statali) e agli assimilati (soci lavoratori delle cooperative, sacerdoti e parlamentari): dice che la base imponibile dell’assegno va determinata in funzione del peso del contributo a carico del datore di lavoro sul totale del contributo previdenziale. Per capire meglio, prendiamo un caso concreto.
Quello di un dipendente pubblico, la cui indennità di buonuscita è alimentata da un contributo obbligatorio a carico del lavoratore nella misura del 2,5 per cento e da contributi a carico del datore di lavoro del 7,10, per un totale del 9,60 per cento. Il contributo pubblico del 7,10 per cento corrisponde al 73,96 del 9,60 per cento. Quindi al travet verrà tassato il 73,96 per cento della buonuscita.
Non avviene così nel caso dei parlamentari. Disciplinando da soli il sistema di rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non pagare un euro bucato di tassazione separata sull’assegno di fine mandato. Il trucco è tanto banale quanto efficace: mentre per il dipendente pubblico, come abbiamo visto, il 73,96 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di lavoro; nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non deve pagare. Non è certo da questi politici (a parte qualche lodevole eccezione) che ci si può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse.
Testo tratto dal saggio di Stefano Livadiotti “Ladri – Gli evasori e i politici che li proteggono” (Bompiani)
Fonte: Informare per resistere
I partiti politici italiani se le sono date di santa ragione per favorire a colpi di leggi i loro rispettivi bacini elettorali. Ma su un fronte hanno lavorato tutti insieme appassionatamente.
L’obiettivo era quello di garantire un trattamento fiscale di straordinario privilegio ai loro rappresentanti in parlamento (ma le stesse regole sono previste anche per gli onorevoli regionali). Ed è stato perfettamente centrato, con un lavorìo rimasto sempre sotto traccia.
Pochi lo sanno: l’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici economici e pensionistici degli onorevoli.
Ma quelli fiscali sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera in rappresentanza del popolo italiano è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento. Ecco come funziona, documenti ufficiali alla mano (ricavati dal sito istituzionale della Camera).
Prendiamo un parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare mai una seduta di Montecitorio. La voce più pesante della sua busta paga è l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno.
Dall’importo vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è esentasse, come vedremo (e come d’altronde è scritto nero su bianco nella relazione al 31 dicembre 2011 su Attività e risultati della Commissione Giovannini sul livellamento retributivo Italia-Europa).
L’onorevole subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918 euro (11.019 euro l’anno). Dall’indennità parlamentare viene infine detratta una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria integrativa.
Il trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno positivo, tutti benefit esentasse. La prima è la diaria, una sorta di rimborso per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037 l’anno) e viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza. La seconda è il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese (44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con pezze d’appoggio (per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo forfettario.
La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo (ai fini della nostra simulazione abbiamo ipotizzato che ciò gli consenta di risparmiare 5 mila euro tondi l’anno) e un rimborso forfettario delle spese di trasporto (ma non viaggia già gratis?) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno). La quarta voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro l’anno) per le bollette telefoniche.
Il pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a 189.431 euro. Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro. Che corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per cento.
Qualunque altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del 39,4 per cento).
L’onorevole paga dunque solo il 47 per cento di quello che toccherebbe a un cittadino comune (e per semplicità non si è tenuto conto degli ulteriori benefici di cui gode sulle addizionali regionale e comunale) e risparmia ogni anno qualcosa come 39 mila euro d’imposta (vedere la tabella nella pagina a fianco). A consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa, da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) e ai giudici costituzionali, «purché l’erogazione di tali somme e i relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi».
Il rispetto dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione. Ma il parlamento ha deciso diversamente. Costringendo altri uffici pubblici a fare i salti mortali per non doverne censurare le scelte. Basti pensare che il Gruppo di lavoro sull’erosione fiscale, costituito a suo tempo da Tremonti per tagliare la spesa pubblica e presieduto da Vieri Ceriani, non avendo altri criteri di rilievo costituzionale per giustificare le ragioni di tali benefici fiscali ha dovuto classificarli tra le misure a rilevanza sociale, cioè alla stregua di quelle a favore delle Onlus e del terzo settore e di quelle che aiutano l’occupazione. Poi dice l’antipolitica.
Ma non è finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento a Lorsignori doveva sembrare ancora poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir (Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917).
Ecco come hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare di 784 euro.
Trattandosi di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dello chèque. L’articolo 17, comma 1 del D.P.R. 917/86 prevede, come per il Tfr dei lavoratori, una tassazione separata dell’assegno di fine mandato, per evitare che si sommi al reddito dell’anno in cui viene incassato, facendo così scattare un’aliquota fiscale più alta.
Ma c’è un’altra disposizione (contenuta nell’articolo 19, comma 2 bis del Tuir) che riguarda il metodo di tassazione separata dell’indennità spettante ai dipendenti pubblici (buonuscita per gli statali) e agli assimilati (soci lavoratori delle cooperative, sacerdoti e parlamentari): dice che la base imponibile dell’assegno va determinata in funzione del peso del contributo a carico del datore di lavoro sul totale del contributo previdenziale. Per capire meglio, prendiamo un caso concreto.
Quello di un dipendente pubblico, la cui indennità di buonuscita è alimentata da un contributo obbligatorio a carico del lavoratore nella misura del 2,5 per cento e da contributi a carico del datore di lavoro del 7,10, per un totale del 9,60 per cento. Il contributo pubblico del 7,10 per cento corrisponde al 73,96 del 9,60 per cento. Quindi al travet verrà tassato il 73,96 per cento della buonuscita.
Non avviene così nel caso dei parlamentari. Disciplinando da soli il sistema di rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non pagare un euro bucato di tassazione separata sull’assegno di fine mandato. Il trucco è tanto banale quanto efficace: mentre per il dipendente pubblico, come abbiamo visto, il 73,96 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di lavoro; nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non deve pagare. Non è certo da questi politici (a parte qualche lodevole eccezione) che ci si può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse.
Testo tratto dal saggio di Stefano Livadiotti “Ladri – Gli evasori e i politici che li proteggono” (Bompiani)
Fonte: Informare per resistere